A PROPOSITO DEL 25 APRILE …

Il 25 aprile di sessantacinque anni fa, la vittoriosa insurrezione partigiana al Nord, poneva la parola fine alla guerra in Italia. Il 25 aprile, dunque, non è una data qualunque: a tutt’oggi evoca drammi non ancora archiviati ed è foriera di mai sopite polemiche.
A tale riguardo è da chiedersi quale traccia ha lasciato nel Sud d’Italia la lotta contro il nazismo e quali sentimenti, ricordi, suscita – dopo oltre sessanta anni - la data del 25 aprile 1945.
1) È noto che il senso e il sentire storico non sono qualcosa di univoco; anche la storia più lontana “parla” diversamente agli uomini d’oggi: la storia dei comuni non veicola gli stessi messaggi ai cittadini di Milano o di Firenze, dove la civiltà comunale fiorì e raggiunse il massimo splendore, ed ai cittadini di Cosenza, dove quelle forme di autogoverno non si svilupparono. Le lotte contro il dominio dell’Impero e dei papi hanno dato a quei cittadini “comunardi” il senso del valore della libertà e della identità collettiva; sentimenti mai sopiti per i secoli successivi. Invece, nell’Italia meridionale, il dominio spagnolo e l’influenza del papato – specie a seguito della Controriforma - hanno contribuito ad “eternizzare” il rapporto servo/padrone impedendo la valorizzazione della libertà.
Scrive Tocqueville: “I popoli risentono sempre l’influenza delle loro origini; le circostanze che hanno accompagnato la loro nascita ed il loro sviluppo peseranno sempre sul loro destino”.
Assistiamo, pertanto, ad una “contaminazione” del passato sul presente: non v’è opinione, legge, comportamento dei singoli, come dei popoli, che non trovi la sua spiegazione in ciò che sono stati. La nostra posizione nel presente è contemporaneamente “risultato” (passato) e “progetto” (futuro) e tale posizione varia al variare della nostra storia.
2) Non condivido affatto la concezione della guerra come una tragica e straordinaria esperienza collettiva che per cinque anni ha visto gli italiani condividere le stesse emozioni. Tanto per fare un esempio, nell’Italia meridionale, ad eccezione delle “quattro giornate” di Napoli (27 settembre-1 ottobre 1943), non si ebbero episodi di resistenza all’occupante tedesco. Nel mezzogiorno, del resto, l’antifascismo militante (che nel Nord si era andato organizzando fin dal 1924) era assente o quantomeno si trovava in uno stato larvale. Ciò perché – è bene ricordarlo - oltre a sostenitori effettivamente convinti della bontà del regime, il grosso di coloro che si professavano fascisti – soprattutto gli appartenenti alle professioni liberali (avvocati, medici, insegnanti, etc.) - vi aderì per mera convenienza, per ricavarne utili personali e familiari. Citando un vecchio adagio, duro a morire e tipico di un’Italia servile e ruffiana, “Francia o Spagna, basta che se magna”, possiamo senza dubbio sostenere che ci troviamo di fronte all’antico e sempre reiterato “vizio storico” del meridionale di stare dalla parte del vincitore. Vizio duro a morire che determina, ancora oggi, la nostra vita.
3) Nel mezzogiorno, durante il Ventennio l’antica – e già citata - relazione servo/padrone si rafforzò e i rapporti di produzione restarono di tipo feudale.
Nel Sud, inoltre, durante il Fascismo, si sviluppò una forma di clientelismo di tipo fondiario -politico: poteva capitare che il proprietario terriero ricoprisse la carica di podestà o federale, cosicché da un lato controllava lo scambio e la dipendenza di natura fondiaria, dall’altro lo scambio di tipo politico.
Non fu così nel Nord d’Italia dove la società civile aveva acquisito nel corso dei secoli senso civico, coscienza della libertà individuale, economica, culturale; elementi, questi, che in una società come quella meridionale non erano pensiero sociale diffuso ma cognizione di pochi.
4) Durante il Ventennio anche la Chiesa ebbe diversi comportamenti secondo la geografia. Mentre al nord, grazie anche alla diffusa presenza delle leghe cattoliche, essa si pose al servizio dei fedeli nel rispetto dei principi neo-testamentari, nel mezzogiorno il clero era compromesso con i baroni, predicava i valori vetero-testamentari e controriformistici dell’obbedienza come virtù, dell’adorazione di un Dio terribile e punitore, Padre-padrone che chiede agli umili e ai poveri la sottomissione ai potenti. Del resto è da rilevare come la coscienza servile sia l’ethos - dominante nelle popolazioni meridionali - che sostanzia i rapporti sociali di tipo clientelare su cui (ancora e purtroppo) è fondato il nostro sistema politico, nonché il sistema di potere mafioso.
5) Con queste poche righe, per nulla esaustive, ho tentato, di dare una giustificazione al diverso impatto che concetti come “liberazione”, “resistenza” (indipendentemente dalla acritica sacralizzazione di questa in un tripudio di retorica, sulla scorta del principio “tutti i buoni da una parte, tutti i cattivi dall’altra”, operata dalla sinistra) hanno avuto sulla società italiana andando a ritroso nel tempo e ricercando le radici storiche di quel “modus cogitandi” che, essendo in contesti del genere uno specchio in cui si riflettono caratteri importanti della nostra storia, differenzia il cittadino del Nord da quello del Sud. Infatti, non privo di significato è il fatto che il 25 aprile, visto dal Sud, è una data che ha segnato il primo passo verso un’Italia repubblicana, dato che, per queste zone, in quanto liberate dagli alleati, gli eventi bellici erano finiti da un pezzo. Visto dal Nord, rappresenta la sconfitta delle ideologie totalitarie, la libertà conquistata col sangue a spese dell’invasore nazista.
Ciò non toglie, a parer mio, che la ricorrenza del 25 aprile rimanga pur sempre una festa ad alta densità politica, che non trova, ormai, riscontro nel sentimento collettivo, soprattutto tra i giovani, i quali non la capiscono, specie ora che sembra aver assunto una nuova connotazione ideologica: l’opposizione contro Berlusconi, il quale viene visto come obiettivo di una nuova mobilitazione “resistenziale”.
Certo, rientra nella normale dialettica politica il manifestare contro l’avversario. Non rientra il fatto che, di tanto in tanto, riaffiori in alcuni settori della sinistra radicale, una vetusta e desueta concezione “proprietaria” della resistenza, unitamente alla tentazione di usare la giornata per battaglie politiche che con il 25 aprile c’entrano poco o nulla, ma che rischiano ancora di far apparire quella festa, indipendente dalla diversa percezione “territoriale” di essa, come la festa di una parte del paese contro l’altra.

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