La Sila ed i briganti, un rapporto inscindibile, magistralmente raccontato da Nicola Misasi nelle sue Cronache del Brigantaggio - parte 1

Ad un'ignota

«Ho ancora dinanzi sullo scrittoio, la vostra lettera, ed ho conservato, fra le cose buone, l’altra, la prima. Di voi so che avete gli occhi neri, so che avete i capelli neri e mi siete ignota nel resto, e rimarrete tale sempre, forse. Il nero negli occhi vuol dire il fuoco nel cuore, il nero dei capelli vuol dire il fuoco nel sangue, vuol dire la passione forte, perciò vi dite stanca di questo mondo vuoto e meschino, e vi dite anelante alla quiete solenne dei grandi boschi e delle grandi solitudini, ed alle passioni dei cuori forti e rudi nei loro impeti: perciò sentite tutto il fascino del selvaggio e tutto il fantasioso della mia Sila fino a comprenderne il bandito. Onde volendo scrivere di essa, voglio parlare a voi che non conosco né nel nome né nella figura, ma che conosco nel cuore e nella passione. Così, dopo due mesi, appago un vostro desiderio non obbliato chè il cuore di noi fantasiosi non oblia anche quando la parola tace: un pensiero cortese, anche quando ci vien da un’ignota, accende una fiammella che va guizzando lieta quanto più ci sentiamo sfiduciati e tristi, chè in quel pensiero indoviniamo un cuore e in quel cuore una bontà, e nel cuore e nella bontà un compenso elettissimo al nostro quotidiano lavoro.
Si, è vero, la Sila è la Calabria: ne ho scritto, altra volta, della passione, della leggenda, del dramma, vario, ampio, ma unico, il dramma di una lotta secolare tra il debole ed il forte, che è poi la storia della umanità secondo la concepiva Niccolò Macchiavelli. La Sila è un mondo a parte, una contrada a parte, inesplorata, anche oggi, come una foresta d’Africa, misteriosa anche oggi, come una grande prateria d’America. Ha bellezze di paesaggi quali non vanta la Svizzera, ed è rude, selvaggia, aspra come una giogaia della Scozia. Quantunque non abbia avuto un Walter Scott per renderla nota, è nota ovunque per il fantasioso ed il solenne che destano un fascino nei cuori, sdegnosi delle frollezze. Nei sogni dei venti anni come i vostri, o forte creatura, essa si intravede popolata di banditi che all’ombra delle querce immani e dei pini giganti lottano, amano, uccidono o cadono uccisi, e i cuori fatti pel romanzo fantasticano in essi i Carlo Moore, gli Ernani, i Robin Hood della poesia, i banditi del dramma, che l’Arte esalta e la Legge manderebbe alle forche, perocchè spesso l’arte va più addentro, nei cuori che la legge. Le foreste fosche ove la notte urla il lupo; i monti nevosi che adergono al cielo le cime ove lo sparviero ha il nido; le caverne profonde ove le vergini rapite udirono parole d’amore frammiste alle bestemmie e scoppii di baci frammisti a gemiti di dolore, e videro lampeggiar d’occhi accesi di passione e lampeggiar di pugnali alzati per ferire; le valli profonde ove la fantasia popolare ha visto vagare nei tramonti malinconici le fate bianche e gli spiriti dei dannati che vanno errando intorno le croci elevate nei luoghi, e son molti i luoghi che han croci, ove lasciarono solo la carne uccisa da un colpo di scure o di fucile: tutto ciò fa parte della grande leggenda silana che si frastaglia in cento racconti, i quali hanno per eroe il bandito, e per passione un odio od un amore.
Da Acri a Taverna per circa cento chilometri la Sila eleva i suoi monti ove l’inverno cade la neve che imbianca le foreste, seppellisce le case, colma i sentieri e segrega dal resto del mondo i paeselli e l’estate sfolgora il sole che feconda gli altipiani. Di un tratto, dopo una gola angusta piena di tenebre, si apre una valle verde coperta di erba foltissima, nella quale affonda il bufalo selvaggio, solitario signore di quelle solitudini: dopo una immensa distesa di piani acquitrinosi ove erranno le mandre, nereggia la foresta immane coi pini fitti e giganti allacciati dà pruni e dall’eriche. Il temporale vi infuria con i suoi rapidi scatarosci, col rombo cupo del tuono, con la folgore guizzante livida che schianta i pini e incendia le querce; poi, dopo i rombi e gli schianti, dopo la rovina e la furia, silenzio di nuovo, il silenzio solenne e terribile che tien dietro alle tempeste. Qua e là biancheggia una casetta che alberga una famiglia di montanari, che nulla sanno del mondo, che ivi nascono, ivi soffrono, ivi amano, ivi muoiono ignoti a tutti, di tutto ignari.
Le donne son belle è forti, hanno gli occhi neri e neri capelli, come dite che sono i vostri ed han la passione violenta nel cuore e nel sangue, la passione semplice, profonda, ingenua, che non conosce lascivie, né civetterie, né infingimenti, né fralezze; gli uomini sontorosi con le membra arse dal gelo e il viso arso dal sole, liberi come lo sparviero, agili come il lupo, schietti o ingenui come bambini, quantunque taciturni come coloro che vivono nella contemplazione dei grandi orizzonti, e nella fiera maestà dei monti. Il loro linguaggio è aspro, fischiante come l’aquilone, che li cullò, che ne arse le menbra e ne sferzò il volto; e la loro vita è buona, tranquilla, misera.

(Cronache del Brigantaggio, edito a Napoli per i tipi di G. Regina nel 1893 - continua)

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