La Sila ed i briganti, un rapporto inscindibile - parte 2

... Colà un tempo cercava un sicuro rifugio il masnadiero, che nei boschi profondi, sotto un pruneto godeva del bottino guadagnato a colpi di fucile, mentre gli uomini della legge a pochi passi da lui battevano la campagna, a orecchie tese, gli occhi indagatori, il fucile spianato. Talora balzava al calpestio di un capriuolo, o di un cignale che sfondava un cespuglio per fuggire o di una volpe che sbucava squittendo, o di un lupo che balzava feroce, e per poco il silenzio della foresta era rotto da urla e da fucilate, mentre nelle fratte o nelle caverne profonde il masnadiero tripudiava gonfio di vino e di carne, novellando d’amore o facendo all’amore con le brune e forti fanciulle che da Gimigliano o da Garafa, da San Giovanni in Fiore o da Garropoli abbandonando madre e fratelli eran quivi venute sicure di trovar cibo e ricovero, per riposare in braccio alla passione dalle dure atroci quotidiane fatiche.
Talora gli uomini della legge vedevano tra i cespugli luccicar gli occhi pieni di sangue degli uomini della colpa e la lotta si accendeva a colpi di fucile e di pugnale e la foresta risuonava di urla e di bestemmie. Poi, al mattino, in fondo ad un burrone, stecchito, con le braccia aperte e un buco rosso in fronte, si trovava un cadavere, o presso un cespuglio si scopriva un moribondo rantolante, ma feroce ancora e risoluto a morire uccidendo. Talora nelle notti profonde, intorno una casa solitaria nel mezzo del bosco risuonante di suoni e di canzoni, di voci e di scoccar di baci, ombre sinistre si avanzavano silenziose, e la cingevano tutta, poi ad un grido le ombre balzavano sulla porta, scalavano le finestre e i suoni e i canti erano rotti da un urlo e la mischia scoppiava; i cantori e i ballerini ridivenivano masnadieri; poi di un tratto divampava l’incendio e fra nuguli di fumo la casa ardeva riverberando tutto all’intorno nelle tenebre le rosse fiamme e sprofondava con un inferno di scintille su “ vivi e su morti ”.
Era quella un tempo la terra della libertà ove chi aveva vissuto per anni molti da servo andava a vivere per pochi giorni da signore, perocchè, come scrissi altrove, il vecchio adagio silano è questo: “ Meglio un anno toro che cento anni bue ” ed in esso ci è tutta la Sila e ci è tutto il brigantaggio. Per un anno, per pochi mesi, che importa? Temuto dagli uomini, amato dalle femmine, protetto dai ricchi, servito dai poveri, pasciuto di carni succolenti, di vino generoso, vestito di velluto, armato di fucili damaschinati e di pugnali con l’elsa d’argento, sentendosi nella solitudine immensa e nei boschi profondi, dei quali sapeva ogni sentiero, ogni antro, ogni speco, libero come lo sparviero e forte come il toro, assaporando la voluttà di sentirsi lupo, lui che per tanti anni era stato agnello: che importa se domani, sorpreso a mezzo un banchetto, o un ballo, o un tripudio di passione, una palla di fucile lo farà rotolare cadavere in fondo a un burrone o lo farà cadere fulminato fra le braccia della sua donna o sul desco nella gozzoviglia, o se, dopo aver lottato come un cignale inferocito e aver ferito ed ucciso, sarà tratto dagli uomini della legge in un carcere oscuro, donde dovrà uscire per essere condotto al patibolo in mezzo a una folla di spettatori, tra i quali riconoscerà l’amico con cui banchetto, la bella femmina che fu sua, che importa? Per un anno, per pochi mesi avrà goduto, lui nato per soffrire la brutalità e l’ingordigia dei signori; si sarà pasciuto di cibi succolenti, lui che si sfamava con un pezzo di pan d’orzo o di granone, avrà dormito avvolto nell’ampio e ricco mantello presso un buon fuoco scoppiettante in una vasta caverna o sotto i pini maestosi, lui che per tanti anni aveva dormito nei fetidi canili e nell’immonde stalle presso ai buoi ed ai maiali: avrà amato e sarà stato amato dalle più belle contadine, lui che aveva visto le sorelle, la moglie, le figlie in braccio ai signori ingordi e feroci. Meglio un anno toro, che cento anni bue!
E dai paeselli sul versante delle montagne, da Pedace e da San Giovanni in Fiore, da Aprigliano e da Celico, da Longobucco e da Pietrafitta, da Gimigliano e da Cicala, la voce potente del bosco chiamava il bandito. Da Spartaco a Marco Berardi, da Tallarico a Seinardi, quanti di cotesti audaci ivi regnarono, quante pagine scrissero della fosca leggenda? Quali storie terribili narrar potrebbero quei pini neri e sinistri; che ferocie d’odii, di vendette, di passioni, di amori, di delitti! Quante urla di feriti, quanti rantoli di moribondi, quanti scoppi di risa infernali sull’offensore sgozzato, caduto nella insidia, quanti gemiti di rapite, e quanti scoppi ardenti di baci risuonano ancora nei fischi dell’aquilone che va nelle notti tenebrose squassando le chiome delle pinete! E nelle caverne, quanti accumuli di ossami, e sotto le pietre e sotto le querce quanti tesori nascosti, e pei sentieri e le balze quante croci che indicano ove cadde un ucciso e dove avvenne una strage! E quali ombre nelle notti profonde, vanno errando per quelle montagne che ebbero un nome ancora terribile nella leggenda! Ora il bandito è morto ucciso dalla libertà; la Sila è vedova del suo sposo terribile. Ora il paese che dava il bandito dà l’emigrante volgare, meschino, malaticcio che lascia deserte la terra e la casa, e va a continuar la vita di stenti e di miserie in America o in Africa.
La miseria ne è la causa e la miseria ne è l’effetto, miseria spaventevole che rode le ossa. La Sila è rimasta quale era, solenne, tragica, deserta, fatta, o creatura che vi dite stanca delle frollezze, per i magnanimi e per i forti. Anche a me un giorno, vedendomi solo fra quei grandi alberi che mi parevano pensosi per bieche memorie, in quella solitudine sterminata, con l’aquilone che mi fischiava fra i capelli, parve sciocco, meschino, pettegolo il piccolo mondo nel quale viviamo e spregevole la civiltà che ci fa schiavi di noi e degli altri. Dalle foreste nereggianti venivano gli incensi della turgida vegetazione portati dal vento che sibilava or stridulo e minaccioso, or mite e malinconico, e lo spirito si spandeva, si spandeva irradiandosi per l’azzurro. Oh, come meschini gli uomini e flaccidi gli amori e sciocchi, gli odii, e misere le gioie e puerili i dolori mi parvero, lassù, di questo mondo: e che profondo disdegno pel mio passato mi punse e come lassù impallidivano le vanità e le vaneglorie, e che rivelazione profonda di un'altra vita più nobile, più raccolta, più intensa mi balenò con un miraggio di virtù forti o di amore eccelsi! Oh, se ci è un uomo che vi ama, e se c’è un uomo che voi amate, andate a riempire quei boschi della vostra passione, chè essi riempiranno i vostri cuori di solenni e grandi ideali. Andate a vivere colà un anno di passione, a costo anche di doverne morire. Vivere un anno di passione vale quanto vivere un secolo di felicità. Ditelo ai giovani sposi, ditelo alle vostre giovani amiche che vanno altrove, in Isvizzera o nella Scozia, a nascondere i loro amori in seno al maestoso selvaggio dei monti e dei boschi e trovano il mercante che vi ha speculato deturpandoli: vengano qui se nella solenne ora dell’imeneo vogliono rigenerarsi e ringagliardirsi. Ditelo ai pensosi, ai fantasiosi, a coloro che soffrono nel corpo e nello spirito; vengano qui a godere, ad amare, a vivere. Oh, la terra dei banditi e degli odii diventi la terra degli amori e dei felici: e dove un di si udivano bestemmie feroci ed urla di dannati, bisbiglino le dolci parole, scoppiino i baci, e le briagate giulive nei boschi deserti e solitarii portino la vita e la ricchezza! Se vedeste, che picchi giganti, che pianure immense, che foreste folte, che sfolgorio di fiori nei prati, che acque limpide e fresche, che sole luminoso, che varietà stupenda di paesaggi, quanti paeselli bianchi per le chine, quante casette bianche pei lembi delle foreste, che muschi morbidi, che odorosi effluvii e come l’animo vola, vola irradiandosi per la serenità dell’azzurro!» (parte 2 - fine)

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